Competenze digitali & fattori psicologici: evidenze dal settore agricolo.

La transizione digitale sta interessando un numero crescente di ambiti e settori, inclusi quelli più tradizionali e meno esposti all’innovazione tecnologica, come l’agricoltura. L’utilizzo effettivo delle tecnologie digitali resta comunque limitato anche (ma non solo) a causa della scarsa diffusione di competenze digitali. Promuovere lo sviluppo di tali competenze è diventato, dunque, una priorità per le istituzioni pubbliche, le associazioni di categoria e le imprese.

Partendo da queste premesse, nel maggio 2021 ha avuto inizio un progetto di ricerca (diretto dall’Unity Lab dell’Edinburgh Napier University), finalizzato a comprendere i processi sottostanti allo sviluppo delle competenze digitali e all’adozione di nuove tecnologie digitali. I risultati di questo studio sono da poco stati pubblicati sulla rivista accademica Technological Forecasting and Social Change. Il testo integrale è disponibile in formato open access a questo indirizzo: https://doi.org/10.1016/j.techfore.2022.121721.

Prendendo come caso studio il settore agricolo di tre paesi europei (Belgio, Italia e Regno Unito), la ricerca ha coinvolto utenti, produttori e esperti di tecnologie digitali al fine di comprendere come vengono sviluppate e/o acquisite le competenze necessarie per utilizzare dispositivi e applicativi per lo smart farming. Dalle interviste è emerso che:

  • la scarsa adozione delle nuove tecnologie in gran parte riflette una mancanza di fiducia nel digitale, dovuta all’inesperienza o alla paura che le nuove tecnologie possano sostituire i lavori tradizionali o mettere a rischio i dati aziendali;
  • l’utilizzo di tecnologie digitali è maggiore tra coloro che dimostrano una forte curiosità e un’attitudine positiva verso l’apprendimento di nuove competenze.

La nostra ricerca, di conseguenza, evidenzia come lo sviluppo di competenze digitali sia fortemente influenzata da fattori psicologici (emozioni, percezioni e attitudini). In particolare, a fare la differenza è la nostra attitudine verso l’apprendimento di nuove competenze. Questa attitudine è, in parte, innata ma anche influenzata a sua volta dalle nostre percezioni ed emozioni nei confronti delle nuove tecnologie. Nel caso specifico dell’agricoltura digitale, se una tecnologia è percepita come utile, l’imprenditore agricolo avrà maggior incentivo ad apprendere le competenze richieste per il suo utilizzo. Invece, se una tecnologia genera emozioni negative – di paura o rischio – sarà più difficile convincere l’imprenditore agricolo a sviluppare le competenze richieste.

I risultati della nostra ricerca sono allineati con studi pre-esistenti nell’ambito dell’informatica e della psicologia, e contribuiscono a chiarire i fattori che determinano l’adozione di nuove tecnologie. Oltre a questo contributo teorico, il nostro studio ha anche chiari risvolti pratici per tutti coloro che sono impegnati a sostenere la digitalizzazione del settore agricolo.

In particolare, sulla base di quanto appreso nelle interviste, è stato possibile formulare le seguenti raccomandazioni:

Dare agli imprenditori agricoli la possibilità di sviluppare le proprie competenze sul campo, tramite giornate dimostrative, periodi di prova o altre iniziative che consentono l’esperienza diretta di nuovi applicativi e dispositivi;

Integrare i programmi di formazione e incentivazione economica con interventi volti a superare potenziali barriere psicologiche e sviluppare un’attitudine positiva verso l’apprendimento e utilizzo di nuove tecnologie;

Coinvolgere gli imprenditori agricoli nel design di dispositivi e applicativi per lo smart farming al fine di identificare fin da subito questioni tecniche e gestionali che potrebbero creare emozioni e percezioni negative tra gli utenti finali;

Utilizzare tecniche di storytelling nella comunicazione sull’agricoltura digitale al fine di suscitare la curiosità degli imprenditori agricoli verso le nuove tecnologie e creare un’accezione positiva nell’immaginario comune.

E se Telecom ritornasse un’impresa di Stato?

La notizia che Cassa Depositi e Presiti si sia decisa ad investire in Telecom Italia deve avere fatto scalpore in Italia, se a parlarne sono addirittura i telegiornali, di solito non troppo interessati a quello che succede nel settore delle telecomunicazioni. L’ex-monopolista si trova ad affrontare l’ennesima battaglia societaria, con il fondo americano Elliott in guerra contro l’attuale azionista di maggioranza, la francese Vivendi. In concomitanza, Cassa Depositi e Prestiti (CDP), controllata dal Ministero dell’Economia e finanziata con il risparmio postale, ha annunciato l’acquisto di azioni fino al 5% del capitale di Telecom Italia (TIM). L’acquisizione di una quota in TIM consentirebbe a CDP di giocare una partita nelle diatribe societarie e favorire il piano di fusione con Enel Open Fiber e di scorporo della rete, da tempo caldeggiato da CDP e governo – una faccenda di cui mi sono occupato qui.

Ho letto i più disparati commenti sulla faccenda (segnalo, tra gli altri, un ottimo articolo su Linkiesta). Come al solito, il dibattito finisce per afflosciarsi su posizioni ideologiche. Da un lato, i liberisti che gridano allo scandalo per un Stato interventista che interferisce con le dinamiche di una società privata e quotata in Borsa. Dall’altro, nazionalisti e nostalgici che plaudono al ritrovato interventismo statale, sempiterna risposta ai problemi del mercato e in difesa dell’interesse nazionale. Chi ha ragione? Vediamo di fare un po’ di chiarezza.

È un ritorno all’economia di stato?

Le telecomunicazioni sono state un monopolio pubblico fino a metà anni Novanta. Sulla spinta delle riforme europee, in quelli anni si procedette a liberalizzare i vari settori a rete, dalle telecomunicazioni all’energia. A differenza di quanto successo per gli altri monopoli statali (Enel, Eni e Ferrovie, per intenderci), lo Stato scelse di privatizzare il monopolista, senza detenere alcuna quota in Telecom Italia. Negli anni si sono succeduti vari proprietari – nomi come Pirelli e Telefonica, mica dilettanti – ma i risultati sono stati (a dir poco) deludenti. Telecom era uno dei principali player mondiali nelle telecomunicazioni, oggi ha attività rilevanti solo in Brasile e in Italia ed è oberata da un debito mostruoso, regalo dei vari azionisti privati. Altri ex-monopolisti, come Deutsche Telekom e France Telecom, hanno avuto un destino migliore, pur rimanendo in parte controllati dai rispettivi governi.

Tutto questo per dire che la proprietà privata non si è rivelata migliore di quella pubblica (anzi) quindi inorridire al rientro dello Stato nel capitale del principale operatore di telecomunicazioni mi pare fuori luogo. Lanciare proclami allarmisti mi pare pure in cattiva fede, perché di fatto il settore pubblico ha continuato a giocare un ruolo chiave nei settori a rete, nonostante venticinque anni di liberalizzazioni, in Italia come in Europa. Tanti operatori sono ancora in parte partecipati da governi nazionali, senza contare municipalizzate e provider locali controllati da Comuni o Regioni. E, come ho discusso nel mio ultimo paper, il supporto del settore pubblico resta un fattore fondamentale per lo sviluppo di infrastrutture, a prescindere dalla proprietà dell’operatore di rete. Insomma, che ci piaccia o no, lo Stato non se ne è mai andato dal mercato ed è forse ora di farsene una ragione!

Lo Stato ci salverà?

Che il pubblico, in tutte le sue diramazioni, sia ancora un protagonista nell’economia è un dato di fatto che va analizzato superando ideologie e preconcetti. Su entrambi i fronti. Quando leggo che una TIM (parzialmente) pubblica agirebbe nell’interesse nazionale, mi sorgono infiniti dubbi. Siamo sicuri che un’impresa pubblica faccia sempre e solo l’interesse della nazione?

Non c’è dubbio che, nell’era digitale, avere accesso a reti sicure e di alta qualità sia una priorità per qualsiasi Stato. Uno dei problemi che affligge il nostro Paese, e che si rinfaccia costantemente a TIM, è la mancanza di una rete ad alta velocità e capillare, che consenta a tutti i cittadini di accedere a Internet con prestazioni elevate. È opinione diffusa che tale obiettivo possa essere raggiunto solo attraverso la realizzazione di reti in fibra ottica che arrivino quanto più possibile vicino a casa dell’utente (FTTH). In questi anni, TIM ha posato fibra fino agli armadi di strada (FTTC), perché portarcela in casa costa troppo. È tutta colpa degli azionisti privati? Siamo sicuri che una TIM pubblica farebbe diversamente?

La tabella qua sotto riporta la copertura delle reti a banda ultralarga realizzata da ex-monopolisti e la quota del loro capitale detenuta da autorità pubbliche. Il confronto europeo dimostra che non esiste una relazione diretta tra investimenti in reti veloci e proprietà pubblica. La maggior copertura è stata raggiunta dagli ex-monopolisti di Paesi Bassi, Portogallo e Belgio, ma solo nel terzo caso il pubblico detiene ancora una quota rilevante del capitale. E non è detto che un operatore parzialmente pubblico abbia maggiore incentivo a investire nelle più performanti reti FTTH: in Germania e Belgio, nonostante l’azionista pubblico, l’ex-monopolista ha prevalentemente realizzato reti FTTC (posando la fibra fino all’armadio di strada) mentre operatori interamente privati, come l’ex-monopolista olandese e spagnolo, hanno posato la fibra fino a casa dell’utente.

Passando al tema della sicurezza,  i casi emersi di recente (vedasi Facebook e Cambridge Analytica) hanno dimostrato come tale questione sia tanto delicata quanto complessa. Mi sembra chiaro che la sicurezza online non dipenda soltanto dal controllo delle reti, ma riguardi tutti gli attori coinvolti nella fruizione dei servizi online, dai produttori di device ai fornitori di contenuti e applicazioni.

Agitare lo spauracchio della cybersecurity per giustificare operazioni di altra natura mi pare anche di cattivo gusto. Non solo. Usare lo spauracchio della sicurezza per ricreare un monopolio delle reti telecomunicazioni è anche controproducente per l’intero paese. Come ho già discusso qui, ritengo che riportare tutte le principali reti di telecomunicazioni sotto un unico proprietario sia nocivo per il mercato e per il Paese. Si andrebbe a sacrificare i benefici indubbi della concorrenza senza avere alcuna certezza che il neo-monopolista realizzi reti capillari e sicure. 

In conclusione: Stato sì o Stato no? Io credo che il punto sia proprio un altro. Quello che ci vuole è un mercato aperto e competitivo, dove Stato e imprese collaborano per promuovere l’accesso all’innovazione digitale. Scavalcando gli interessi di singoli azionisti e burocrati.

Che sia pubblico o privato, è fondamentale che l’investimento nelle reti di telecomunicazioni smetta di seguire logiche politiche o imprenditoriali di breve periodo per garantire al Paese l’infrastruttura che si merita.

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Ex-monopolista Quota di proprietà pubblica Copertura banda ultralarga Tecnologia
Italia Telecom Italia 0% 77%

10%

FTTC

FTTH

Regno Unito British Telecom 0% 95% FTTC
Germania Deutsche Telekom 32% 71% FTTC
Francia France Telecom 27% 25% FTTH
Austria A1 Telekom Austria 28.5% 35% FTTC
Belgio Belgacom 53.5% 94% FTTC
Danimarca TDC 0% 30% FTTC e FTTH
Finlandia Elisa 1% 65% FTTH
Grecia OTE 10% 60% FTTC
Irlanda EIR 0% 86% FTTC
Paesi Bassi KPN 0% 90% FTTC e FTTH
Norvegia Telenor 54% 40% FTTH e cavo
Portogallo PT Comunicações 9% 95% FTTH
Spagna Telefonica 0% 93% FTTH
Svezia Telia 37% 35% FTTH

Fonte: OECD Communications Report 2013, Cullen International.

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L’eterno ritorno dello scorporo della rete

Estate 2013, primo giorno di lavoro in un’azienda di telecomunicazioni: mi viene chiesto di scrivere una nota sulla proposta di scorporo della rete di TIM.

Autunno 2015, primo mese di Dottorato in Inghilterra: un ex-collega in Agcom mi chiama per commentare la nuova proposta di Tim per la governance della rete.

Febbraio 2018, mi sto avvicinando alla fine del dottorato e – ormai ci sono abituato – leggo che TIM ha lanciato un nuovo piano per la separazione della rete.

Della mia breve ma intensa carriera nelle telecomunicazioni, lo scorporo della rete di TIM è stato un ritornello costante. In 5 anni, 3 piani sono stati avanzati e discussi in innumerevoli incontri, seminari, articoli, riunioni, etc. Nel frattempo, ho cambiato 3 lavori e traslocato 2 volte, ma Telecom è ancora il monopolista verticalmente integrato di sempre… Tanto rumore per nulla?

Certamente, in questi 5 anni sono cambiate tantissime altre cose nel mercato italiano:

Insomma, è indubbio che rispetto a 5 anni fa il mercato abbia fatto grandi progressi. Restano grandi questioni irrisolte, a partire dal digital divide che nega alle aree rurali una grande opportunità di sviluppo e ad una domanda di servizi digitali che stenta a consolidarsi. Ma siamo sicuri che la separazione della rete sia la risposta giusta a questi problemi?

Oggi i giornali riportano l’entusiasmo di politici e mercati finanziari per la proposta di TIM. Non vorrei guastare l’aria di festa, ma ho seri motivi per dubitare che la separazione della rete di TIM sia la soluzione a tutti i mali che frenano lo sviluppo digitale del paese. Infatti, l’esperienza di altri mercati dimostra, piuttosto, che qualsiasi forma di separazione della rete comporta più rogne che benefici.

In Nuova Zelanda e Australia, le Telecom locali sono state scorporate da anni e acquistate dai rispetti governi nell’ambito di iniziative pubbliche per lo sviluppo della banda ultralarga. Entrambi i progetti, però, si sono rivelati ben più complessi del previsto e a pagarne le spese è stato il contribuente.

Qualche numero? Nel 2010, il governo australiano ha acquistato la rete dell’ex-monopolista per 11 miliardi di dollari australiani (AUD) nel 2010. Sei anni dopo, ha assegnato allo stesso ex-monopolista un nuovo contratto da 1.6 miliardi di AUD per disegnare e costruire la nuova rete. Nel frattempo, i costi per realizzare una rete pubblica nazionale sono lievitati: il governo aveva programmato una spesa di 43 miliardi di AUD per una rete FTTH e invece ne spenderà 49 per una rete FTTC… non un grande affare per il contribuente australiano!

Nel Regno Unito, la separazione funzionale (introdotta nel 2005) ha favorito un’intensa concorrenza sui servizi, ma non ha stimolato alcuna concorrenza infrastrutturale su larga scala. I grandi operatori – nomi come Sky e Vodafone, per intenderci – non hanno realizzati reti alternative e BT ha investito, per ora, quasi esclusivamente in reti FTTC. Di recente, Ofcom ha imposto la separazione strutturale dell’ex-monopolista nel tentativo di promuovere ulteriori investimenti in reti FTTH. Di fatto, però, le poche reti FTTH attive nel paese sono state realizzate da operatori alternativi di piccole dimensioni (come discusso nel mio recente paper), per i quali la separazione strutturale di BT è più una minaccia che un’opportunità.

Visti i precedenti, AGCOM dovrebbe valutare con attenzione costi e benefici dello scorporo, tenendo conto del contesto competitivo nazionale. Quali sono le conseguenze di tali operazioni sugli investimenti privati già in atto? Quali le conseguenze sul piano del Governo? Se l’obiettivo (neppure troppo nascosto) è giungere alla fusione della rete di TIM con Open Fiber, allora il rischio di deprimere la dinamica competitiva che ha spinto gli investimenti negli ultimi anni diventa altissimo. 

Proprio quando la concorrenza tra reti stava iniziando a funzionare anche nel nostro paese! Per dirla à la Nietzsche: non è il nostro un eterno precipitare?

 

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