La notizia che Cassa Depositi e Presiti si sia decisa ad investire in Telecom Italia deve avere fatto scalpore in Italia, se a parlarne sono addirittura i telegiornali, di solito non troppo interessati a quello che succede nel settore delle telecomunicazioni. L’ex-monopolista si trova ad affrontare l’ennesima battaglia societaria, con il fondo americano Elliott in guerra contro l’attuale azionista di maggioranza, la francese Vivendi. In concomitanza, Cassa Depositi e Prestiti (CDP), controllata dal Ministero dell’Economia e finanziata con il risparmio postale, ha annunciato l’acquisto di azioni fino al 5% del capitale di Telecom Italia (TIM). L’acquisizione di una quota in TIM consentirebbe a CDP di giocare una partita nelle diatribe societarie e favorire il piano di fusione con Enel Open Fiber e di scorporo della rete, da tempo caldeggiato da CDP e governo – una faccenda di cui mi sono occupato qui.
Ho letto i più disparati commenti sulla faccenda (segnalo, tra gli altri, un ottimo articolo su Linkiesta). Come al solito, il dibattito finisce per afflosciarsi su posizioni ideologiche. Da un lato, i liberisti che gridano allo scandalo per un Stato interventista che interferisce con le dinamiche di una società privata e quotata in Borsa. Dall’altro, nazionalisti e nostalgici che plaudono al ritrovato interventismo statale, sempiterna risposta ai problemi del mercato e in difesa dell’interesse nazionale. Chi ha ragione? Vediamo di fare un po’ di chiarezza.
È un ritorno all’economia di stato?
Le telecomunicazioni sono state un monopolio pubblico fino a metà anni Novanta. Sulla spinta delle riforme europee, in quelli anni si procedette a liberalizzare i vari settori a rete, dalle telecomunicazioni all’energia. A differenza di quanto successo per gli altri monopoli statali (Enel, Eni e Ferrovie, per intenderci), lo Stato scelse di privatizzare il monopolista, senza detenere alcuna quota in Telecom Italia. Negli anni si sono succeduti vari proprietari – nomi come Pirelli e Telefonica, mica dilettanti – ma i risultati sono stati (a dir poco) deludenti. Telecom era uno dei principali player mondiali nelle telecomunicazioni, oggi ha attività rilevanti solo in Brasile e in Italia ed è oberata da un debito mostruoso, regalo dei vari azionisti privati. Altri ex-monopolisti, come Deutsche Telekom e France Telecom, hanno avuto un destino migliore, pur rimanendo in parte controllati dai rispettivi governi.
Tutto questo per dire che la proprietà privata non si è rivelata migliore di quella pubblica (anzi) quindi inorridire al rientro dello Stato nel capitale del principale operatore di telecomunicazioni mi pare fuori luogo. Lanciare proclami allarmisti mi pare pure in cattiva fede, perché di fatto il settore pubblico ha continuato a giocare un ruolo chiave nei settori a rete, nonostante venticinque anni di liberalizzazioni, in Italia come in Europa. Tanti operatori sono ancora in parte partecipati da governi nazionali, senza contare municipalizzate e provider locali controllati da Comuni o Regioni. E, come ho discusso nel mio ultimo paper, il supporto del settore pubblico resta un fattore fondamentale per lo sviluppo di infrastrutture, a prescindere dalla proprietà dell’operatore di rete. Insomma, che ci piaccia o no, lo Stato non se ne è mai andato dal mercato ed è forse ora di farsene una ragione!
Lo Stato ci salverà?
Che il pubblico, in tutte le sue diramazioni, sia ancora un protagonista nell’economia è un dato di fatto che va analizzato superando ideologie e preconcetti. Su entrambi i fronti. Quando leggo che una TIM (parzialmente) pubblica agirebbe nell’interesse nazionale, mi sorgono infiniti dubbi. Siamo sicuri che un’impresa pubblica faccia sempre e solo l’interesse della nazione?
Non c’è dubbio che, nell’era digitale, avere accesso a reti sicure e di alta qualità sia una priorità per qualsiasi Stato. Uno dei problemi che affligge il nostro Paese, e che si rinfaccia costantemente a TIM, è la mancanza di una rete ad alta velocità e capillare, che consenta a tutti i cittadini di accedere a Internet con prestazioni elevate. È opinione diffusa che tale obiettivo possa essere raggiunto solo attraverso la realizzazione di reti in fibra ottica che arrivino quanto più possibile vicino a casa dell’utente (FTTH). In questi anni, TIM ha posato fibra fino agli armadi di strada (FTTC), perché portarcela in casa costa troppo. È tutta colpa degli azionisti privati? Siamo sicuri che una TIM pubblica farebbe diversamente?
La tabella qua sotto riporta la copertura delle reti a banda ultralarga realizzata da ex-monopolisti e la quota del loro capitale detenuta da autorità pubbliche. Il confronto europeo dimostra che non esiste una relazione diretta tra investimenti in reti veloci e proprietà pubblica. La maggior copertura è stata raggiunta dagli ex-monopolisti di Paesi Bassi, Portogallo e Belgio, ma solo nel terzo caso il pubblico detiene ancora una quota rilevante del capitale. E non è detto che un operatore parzialmente pubblico abbia maggiore incentivo a investire nelle più performanti reti FTTH: in Germania e Belgio, nonostante l’azionista pubblico, l’ex-monopolista ha prevalentemente realizzato reti FTTC (posando la fibra fino all’armadio di strada) mentre operatori interamente privati, come l’ex-monopolista olandese e spagnolo, hanno posato la fibra fino a casa dell’utente.
Passando al tema della sicurezza, i casi emersi di recente (vedasi Facebook e Cambridge Analytica) hanno dimostrato come tale questione sia tanto delicata quanto complessa. Mi sembra chiaro che la sicurezza online non dipenda soltanto dal controllo delle reti, ma riguardi tutti gli attori coinvolti nella fruizione dei servizi online, dai produttori di device ai fornitori di contenuti e applicazioni.
Agitare lo spauracchio della cybersecurity per giustificare operazioni di altra natura mi pare anche di cattivo gusto. Non solo. Usare lo spauracchio della sicurezza per ricreare un monopolio delle reti telecomunicazioni è anche controproducente per l’intero paese. Come ho già discusso qui, ritengo che riportare tutte le principali reti di telecomunicazioni sotto un unico proprietario sia nocivo per il mercato e per il Paese. Si andrebbe a sacrificare i benefici indubbi della concorrenza senza avere alcuna certezza che il neo-monopolista realizzi reti capillari e sicure.
In conclusione: Stato sì o Stato no? Io credo che il punto sia proprio un altro. Quello che ci vuole è un mercato aperto e competitivo, dove Stato e imprese collaborano per promuovere l’accesso all’innovazione digitale. Scavalcando gli interessi di singoli azionisti e burocrati.
Che sia pubblico o privato, è fondamentale che l’investimento nelle reti di telecomunicazioni smetta di seguire logiche politiche o imprenditoriali di breve periodo per garantire al Paese l’infrastruttura che si merita.
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Ex-monopolista | Quota di proprietà pubblica | Copertura banda ultralarga | Tecnologia | |
Italia | Telecom Italia | 0% | 77%
10% |
FTTC
FTTH |
Regno Unito | British Telecom | 0% | 95% | FTTC |
Germania | Deutsche Telekom | 32% | 71% | FTTC |
Francia | France Telecom | 27% | 25% | FTTH |
Austria | A1 Telekom Austria | 28.5% | 35% | FTTC |
Belgio | Belgacom | 53.5% | 94% | FTTC |
Danimarca | TDC | 0% | 30% | FTTC e FTTH |
Finlandia | Elisa | 1% | 65% | FTTH |
Grecia | OTE | 10% | 60% | FTTC |
Irlanda | EIR | 0% | 86% | FTTC |
Paesi Bassi | KPN | 0% | 90% | FTTC e FTTH |
Norvegia | Telenor | 54% | 40% | FTTH e cavo |
Portogallo | PT Comunicações | 9% | 95% | FTTH |
Spagna | Telefonica | 0% | 93% | FTTH |
Svezia | Telia | 37% | 35% | FTTH |
Fonte: OECD Communications Report 2013, Cullen International.